Tracce dell’Irrapresentabile: due corti di Janos Kis.

Nella terza parte dei suoi brevi Tre saggi sull’immagine, intitolata L’immagine interdetta, Jean-Luc Nancy affronta un tema che ha caratterizzato la discussione estetica della seconda metà del secolo scorso: “a proposito della rappresentazione dei campi o della Shoah circola la tesi, non ben definita, ma insistente, che non si possa o non si debba rappresentare lo sterminio”. Si tratta(va) di un tema dalle ragioni non ben definite. Qual è la natura di questa interdizione? Si parla “di un’impossibilità o di un’illegittimità?” Nel primo caso, cosa renderebbe questa rappresentazione impossibile? “Non si può certo pensare che sia una questione tecnica”; “dipende forse dal carattere insostenibile di ciò che si deve rappresentare?” Ma Nancy obietta a questa sua stessa supposizione portando come esempi numerosi casi artistici nei quali qualcosa di tremendamente orrendo (come, ad esempio, gli “orrori della guerra dipinti da Goya” oppure le “scene di ferite e di morti atroci in tanti film”). “Se si tratta, invece, di un’illegittimità, la si rinvia ad un’interdizione religiosa, che viene evocata fuori del suo contesto, senza giustificare in nessun modo questo spostamento. Si produce allora uno slittamento di questo divieto, che concerne in primo luogo Dio, alla persona degli ebrei sterminati (e poi a quella delle altre vittime)”. Ma, chiarisce più avanti il filosofo francese, “la rappresentazione non è un simulacro: non è la sostituzione della cosa originale – in verità, non si riferisce a una cosa: è la presentazione di ciò che non si riduce a una presenza data e compiuta (o data come compiuta), oppure è la messa in presenza di una realtà (o di una forma) intelligibile attraverso la mediazione formale di una realtà sensibile“. Nella rappresentazione dell’orrore, dunque, quale che sia la natura dell’interdizione imposta, non sussiste alcuna forma di mancanza di rispetto, che mi pare essere la vera radice di questa irrappresentabilità. Non bisogna mostrare l’Olocausto, secondo questa tesi, perché sarebbe, insomma, una riduzione della sua portata drammatica, tragica ed orrorifica.

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Tuttavia, esistono artisti che hanno saputo rappresentare questo Irrapresentabile senza con ciò sminuirlo ma, anzi, pagando il dovuto rispetto e tributo a ciò che esso è stato. L’esempio migliore, a mio avviso, è Il figlio di Saul di László Nemes (a tal proposito rimando alla lettura di questo meraviglioso articolo di Il Tempo Impresso) ma esistono anche altri autori che, con strumenti e modalità differenti, hanno saputo rievocare l’Irrappresentabile senza scadere nella becera spettacolarizzazione o banalizzazione (entrambe solitamente dotate di un patetismo a tratti irritante, come nel caso de La vita è bella di Roberto Benigni, o nel romanzo di John Boyne prima e nel rispettivo adattamento di Mark Herman poi Il bambino con il pigiama a righe). E’ il caso di un altro autore ungherese, un fotoreporter e regista di cortometraggi chiamato Janos Kis che nel 2017 ha girato due corti che non portano in scena l’Irrapresentabile, non lo riproducono, non lo rappresentano ma mostrano, invece, le tracce lasciate da esso. In Fear e Requiem for the forgotten (entrambi reperibili sulla piattaforma di streaming dedicata allo slow cinema Tao Films), infatti, non vediamo eventi, non vediamo azioni: vediamo solo le orme della storia, resti del passato.

In Fear, nello specifico, assistiamo a tre inquadrature che ritraggono, come verrà poi esplicitato dai titoli di coda, i crematori di Auschwitz I e di Auschwitz-Birkenau, del quale viene mostrato anche un’altra zona. Requiem for the forgotten (nei titoli di testa presentato con un errore come “Requiem for the forgottens”), invece, mostra delle scarpe senza proprietari, sparse in disordine sulla riva del Danubio, che attraversa Budapest. In circa 24 minuti complessivi (poco meno di 10 Fear, 14 Requiem), Kis rievoca, attraverso immagini che rifiutano qualsiasi forma di orpello cinematografico, un passato che ormai viene visto come distante, scollegato dal nostro presente. Il nostro presente è qui, vicino, dove siamo noi; la Shoah appartiene ad un altro universo, ad un altro tempo, un altra realtà. Tuttavia, i quattro piani sequenza che compongono i due film mostrano come quell’altra realtà, quell’altro universo, quell’altro tempo non siano altro che appena dietro le nostre spalle, tremendamente presenti, tremendamente reali.

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Fear, in particolare, la più forte ed interessante delle due opere, ritraendo direttamente quei luoghi, ormai in rovina, abbandonati alle cure del turismo e della natura, pone lo spettatore dinnanzi all’innegabile verità. Non rappresentando l’Irrapresentabile, Kis delega questo atroce compito al pubblico, costretto da quella silenziosa quiete che ha ora sostituito i lamenti privi di speranza degli Häftlinge (i prigionieri) le grida furiose dei Kapos e delle SS a ricostruire o, quantomeno, a provare a ricostruire l’inferno che quei luoghi hanno rappresentato per milioni di persone, quei luoghi dai quali “non si esce che per il Camino”, secondo un tristo tormentone, termine quanto mai adeguato, che Primo Levi (rinchiuso proprio ad Auschwitz, nella sede di Monowitz) ricorda in Se questo è un uomo. E lo spettatore quei camini li vede, li vede come sono ora, a riposo, fuori servizio, dimentichi della loro infame, agghiacciante, disgustosa funzione. Dimentichi, perché la materia inanimata non ha memoria. L’uomo, invece, questo ammasso di materia vivente, ha memoria, purtroppo e, al tempo stesso, per fortuna. Non solo di ciò che ha vissuto in prima persona ma anche di ciò che davanti ai suoi occhi e alla sua mente si è mostrato in terza. Quei camini, oggi, non liberano più gli Häftlinge dalla loro prigionia della carne ma, ai nostri occhi, continuano a farlo. Quelle strutture, divenute non più luoghi di tortura e sofferenze senza fine ma attrazioni turistiche (nella prima inquadratura di Fear, sullo sfondo, dietro un piccolo innalzamento del terreno, possiamo intravedere le teste di una comitiva che sta visitando il campo), continuano a torturare e a causare sofferenze senza fine, perché è questo il motivo per il quale sono nate. Lo fanno per mezzo della memoria, per mezzo di quell’Irrappresentabile che dal passato riemerge nelle rappresentazioni del presente, più spesso con opere banalizzanti come La vita è bella, assai di rado con la forza agghiacciante di Il figlio di Saul (le cui vicende narrate, seppur leggermente differenti, possono esser trovate anche ne I sommersi e i salvati di Levi).

Il silenzio, tanto in Fear quanto in Requiem for the forgotten, non si rivela solo come quiete umana, come assenza di parole. Il silenzio parla la lingua del vento, che è spettatore costante della tragedia umana. In entrambi i corti, infatti, l’orecchio dello spettatore viene costantemente accompagnato dal soffio, delicato ma insistente, del vento, che sussurra il proprio eterno ricordo allo spettatore: sta a quest’ultimo, infine, ascoltarne la voce, decifrare la follia di quella Storia che mai ha potuto conoscere in prima persona, la tragedia inimmaginabile di quelle storie che mai ha potuto vivere e che ormai sono dimenticate dall’uomo, custodite solo dal rumoroso, pesante ed invadente silenzio del vento. Quelle scarpe davanti alle quali l’acqua del Danubio scorre placida ed indifferente potrebbero non appartenere al medesimo universo, al medesimo tempo, alla medesima realtà dell’Irrapresentabile, le due opere di Janos Kis potrebbero raccontare mondi differenti ma, agli occhi del sottoscritto, esse paiono indissolubilmente legate, l’una figlia dell’altra e l’altra figlia dell’una.

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Kis, così, con questi due cortometraggi propone una soluzione alternativa alla rappresentazione dell’Irrapresentabile, differente ma, in fondo, non così distante come potrebbe apparire da quella presentata da Laszlo Nemes ne Il figlio di Saul. Come illustra Mattia Fiorino nell’articolo sul blog Il Tempo Impresso, Nemes sceglie di “concentrarsi sugli occhi del suo unico protagonista e mettere fuori fuoco il resto”, opzione che parrebbe l’unica soluzione possibile al problema dell’irrappresentabilità dell’Olocausto. Kis, invece, aggira questo ostacolo mostrando non una rappresentazione della Shoah ma ritraendone, nel caso di Fear, o ricostruendone, in Requiem for the Forgotten, le tracce. I due registi ungheresi ricorrono ad un approccio quasi antitetico: se nel caso del regista premio Oscar, infatti, assistiamo ad una rielaborazione, seppur mantenuta sempre sullo sfondo, di quegli eventi traumatici ed atroci, Janos Kis non rielabora nulla, documenta semplicemente, attinge dal presente per rievocare il passato, laddove il primo attingeva dal passato stesso. Entrambi, tuttavia, affidano allo spettatore il compito, arduo ed ingrato, di ricostruire gli orrori che vengono suggeriti, ir-rappresentati o relegati laddove non possano nuocere davvero: “il fuori campo è riempito e creato da chi guarda”.

E’, infine, proprio in questo che si cela l’irrapresentabilità dell’Irrapresentabile, dell’Olocausto (e di Dio, se concordiamo con lo slittamento evidenziato da Nancy). Non tanto in una questione morale, in una forma di rispetto verso le vittime, celebri o dimenticate che siano, quanto, piuttosto, nel nostro bisogno di non guardare, di non ricordare, di proteggerci da quell’orrore insostenibile; l’Irrapresentabile è tale non per nobiltà ma per viltà, non per altruismo etico e rispettoso ma per egoismo.

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