Nel cinema contemplativo, il piano-sequenza può svolgere numerose funzioni. Se in quello classico e commerciale nella maggioranza dei casi è, come sostiene Lutz Koepnick, una prova di virtuosismo tecnico[1], nello slow cinema esso assume connotati ben più profondi. Ve ne sono diversi, che sviscereremo in articoli appositi, ed oggi ci concentreremo su un singolo esempio quale campione di una certa natura del piano-sequenza: l’incipit de Le Armonie di Werckmeister di Béla Tarr.
In questa prima scena vengono introdotti alcuni dei protagonisti e dei personaggi secondari del film. Essa ritrae gli avventori di un bar che, sotto la guida di Valuska, riproducono il sistema Terra-luna-sole: un uomo fermo al centro della stanza fa la grande stella, un altro che gli ruota intorno è il nostro pianeta, ed un terzo, che si muove attorno a questo, è il satellite.
E ora avremo una spiegazione di come gente semplice come noi può imparare qualcosa sull’immortalità. Vi prego soltanto di venire con me in uno spazio sconfinato. Dove regnano la stabilità, la serenità, la pace e il vuoto infinito. Immaginate che qui, in questo infinito silenzio sonoro, tutto sia avvolto da un’oscurità impenetrabile.
La macchina da presa di Tarr, nelle battute iniziali di questa lunga sequenza, svolge il suo semplice compito di ritrarre l’azione. Dal primo fotogramma fino al quarto minuto, all’incirca, la camera resta distaccata, assopita placidamente nel suo ordinario svolgimento del dovere, guidata dal sapiente occhio di Béla Tarr. Essa, qui, è per il momento solo il mezzo attraverso il quale lo spettatore viene a conoscere lo spazio ed il tempo del film, è la chiave che ci porta nell’opera. Partendo dal dettaglio di una stufa, aperta e rimpinguata da una mano inizialmente ignota, l’immagine si allarga e si rivolge alla stanza, un piccolo locale vissuto da persone che vengono invitate ad uscire dal possessore della mano, il proprietario del bar. Ma non è ancora il momento della buonanotte, per costoro, perchè Valuska, nome che in questo momento suona sconosciuto, deve mostrarci qualcosa. Ed ecco che entra Valuska, questo uomo piccolo, magrolino, biondo, all’apparenza insignificante ed anonimo, come tutti gli altri presenti.
Il decoupage di Tarr, fino all’inizio della “rappresentazione” astronomico-sociale del sistema ternario sopra illustrato, è il più semplice che si possa immaginare, seppur orchestrato con encomiabile eleganza. Dettagli, campi totali, primi piani si susseguono in questo piano-sequenza, lento eppur ritmato. I tre uomini cominciano a svolgere i ruoli a loro attribuiti, muovendosi incerti e barcollanti (evidentemente a causa della serata passata al bar), scoordinati e sgraziati: una Via Lattea imperfetta e squilibrata. Uno gira attorno all’altro, il quale a sua volta gira attorno al terzo. Con questo ruotare ubriaco, Béla Tarr cambia il tono della propria macchina da presa, che a poco a poco si lascia coinvolgere nell’azione. Lo spettatore, preso per mano e guidato dal regista, viene sempre più trascinato in questa galassia fatta di alcool e povertà. Fino al momento dell’eclisse.
Improvvisamente scoppia il dramma. In quel preciso attimo l’aria si raffredda inaspettatamente.
I tre uomini, ora, sono allineati, la macchina da presa si ferma e segue come uno studente diligente, immobile ed attenta, la spiegazione di Valuska. Il sole viene lentamente oscurato dalla luna, scende il gelo sulla Terra: “la sentite anche voi?”. Si solleva pian piano, nel racconto del protagonista, un’atmosfera apocalittica, con il cielo nero, animali che fuggono impauriti. “Ora il silenzio è totale”. Subentrano le note di piano forte del fido Mihaly Vig, amare e malinconiche.
Non sappiamo cosa accadrà. Non possiamo saperlo perchè ora c’è l’eclissi totale del Sole.
Quasi in lutto, Valuska si ferma al centro della stanza, il capo chino e la schiena rigida. La macchina da presa indietreggia lentamente, lasciando il protagonista da solo con il proprio dolore; si solleva di qualche centimetro, nel quadro entra una lampada che con la sua forte luce bianca copre il capo di Valuska. “Ma non bisogna avere paura, non è ancora finita”. Ci riavviciniamo a lui, torniamo sul pavimento ed un moto di speranza sorge nelle parole dell’uomo, come nel nostro cuore. Perchè adesso la luna si sposta lentamente, la calda luce del sole torna a poco a poco ad ardere nel cielo. I due uomini tornano a ruotare attorno all’uomo-Sole e noi veniamo nuovamente accompagnati all’interno di questo sistema. “Tutti sono presi dalla commozione perchè si liberano dell’oscurità”. Tutti gli altri avventori si uniscono a questo valzer sgraziato, questa Via Alcolica si anima di nuovi pianeti che si sfiorano, si scontrano ma non si feriscono. È questa una danza che evoca immagini di un futuro socialmente positivo. Tuttavia qualcosa interviene e cala il silenzio: è il barista, il quale invita tutti a tornare a casa. Lentamente gli avventori si preparano ad uscire e Valuska incrocia, con un’aria irritata e di sfida, lo sguardo del proprietario del locale e gli dice che non aveva ancora finito.
La macchina da presa di Tarr continua a ritrarre, senza interruzioni, gli eventi semplici ed ordinari che avvengono. Essa è un ago che, perforando lo spazio, tiene unito il tessuto sociale che viene, in questa sequenza iniziale, riassunto. Questo incipit de Le armonie di Werckmeister, attraverso le parole di Valuska e il quadro di Béla Tarr, svolge la medesima funzione che, nelle antiche tragedie greche, svolgeva il prologo: introduce la storia, ne accenna lo svolgimento ed il finale, attraverso l’uso della metafora. La camera diviene in questo modo il mezzo attraverso il quale questa metafora assume la propria forma estetica (quella fonetica è lasciata al racconto di Valuska): essa è il bisogno di unità sociale, essa è l’urgenza impellente di una costituzione della leopardiana social catena, essa è il rammarico per qualcosa che già sappiamo, prima ancora di veder svolgersi la trama del film, non accadrà. Siamo nel pieno di un’eclisse che non può far altro che gettare sempre più oscurità, sempre più gelo sul mondo.
Nelle parole di Valuska si percepisce una nota, ingenua e quasi infantile, di speranza in una nuova luce del sole che torni a scaldare l’Ungheria, il suo popolo, e l’umanità intera. Essa persisterà per molta parte del film, resisterà alle tensioni che, a causa della nuova “attrazione” cittadina, verranno a crearsi. Ma quando queste esploderanno, nella magnifica ed agghiacciante scena dell’assalto all’ospedale, moderna riproposizione della strage degli innocenti, lo sguardo tenero ed innocente del nostro protagonista non sopravvivrà. La speranza, con quel primissimo piano lapidario e funereo, morirà.
E così, già conscia dell’imminente avvenire, la macchina da presa si avvia verso l’uscio del bar, al termine della scena incipitaria. Valuska non ha terminato di liberare nell’aria la propria speranza. Ma non c’è più spazio per questa bizzarra, astrusa, quasi aliena forza, la speranza.
Note
[1] “The occasional use of a sequence shot today often turns out to be a competitive bravura act, a testing ground for directorial control and creativity”, The long take: art cinema and the wondrous, p. 9, Lutz Koepnick, Universtiy of Minnesota Press.