Noia negativa: Climax di Gaspar Noè (2018)

Questo articolo deve cominciare con una confessione: ho un debole per Gaspar Noè. Cionondimeno, cerco sempre di pormi con una certa oggettività nei confronti dei suoi film, per non lasciare che il mio amore per il suo cinema obnubili la mia capacità di giudizio. Detto ciò, una domanda potrebbe sorgere spontanea: che ci fa Noè su un blog dedicato allo slow cinema?

Lo stile di Noè, forse non c’è neanche bisogno di dirlo, è uno dei più eccentrici che si possano trovare nella storia del cinema moderno. Non solo eccentrico, il regista argentino è anche eclettico. Nel corso della sua filmografia, della quale Climax rappresenta solo il quinto lungometraggio in una carriera ventennale, non si trova un singolo film che sia stilisticamente la copia di un altro. Se, infatti, la stragrande maggioranza (per non dire la quasi totalità) dei registi presenta uno stile che torna e si ripete, pur sempre evolvendosi, nel corso delle rispettive carriere, Noè, da grande provocatore ed anticonformista qual è, propone un cinema poliedrico. Si passa dalla rigidità di Seul contre tous (1998) alla folle e confusa agitazione che si trasforma poi in rilassante e quanto mai “strana” quiete di Irreversible (2002); dall’oltremondana mobilità di Enter the Void (2010) al frammentario singhiozzo del tempo, evoluzione della stasi del primo lungometraggio, di Love (2015).


In Climax troviamo tutto questo, sintetizzato in una nuova droga, in una nuova esperienza irrazionale ed allucinante-allucinogena, più estrem(izzat)a rispetto a quanto visto in precedenza. La macchina da presa di Noè, probabilmente unico fil rouge che collega realmente l’aspetto tecnico della sua carriera, segue sempre l’evolversi della narrazione. Non si limita, cioè, a riprendere ciò che avviene nella storia mostrandolo allo spettatore ma diventa un riflesso della stessa. Come uno specchio spia, quello delle sale interrogatori, che permettono di vedere attraverso di essi se si guarda da un lato ma restituiscono solo un riflesso se guardati dall’altro, così la macchina da presa si comporta con la narrazione: dal lato dello spettatore, essa racconta; dal lato della narrazione, essa la imita. Così, in Irreversible abbiamo una prima parte agitata il cui doppelgänger è una mdp che si muove convulsamente ed una seconda più pacata che si traduce in movimenti più delicati della camera stessa; e così in Seul contre tous e Love, nei quali la narrazione si mantiene su un livello di esistenziale monotonia e rigidità, essa si muove poco, spesso si limita solo a qualche carrellata e poco più; il discorso prosegue con Enter the Void, nel quale la macchina da presa è viva e pedina il protagonista ma poi, non appena questi muore, muore con lui e diventa la sua anima. Parimenti, il degenerare allucinato dell’azione di Climax (mai titolo fu più azzeccato!) genera movimenti della camera sempre più incomprensibili, disturbanti e “fastidiosi”.


Il tempo, attraverso la filmografia del regista, ha sempre avuto un ruolo centrale nella riflessione filosofica dei suoi film, specialmente a partire da Irreversible. Alla fine di quest’ultimo, infatti, dopo una narrazione a ritroso (e già questo dice molto sul tempo noeniano), si legge “le temps detruit tout”, il tempo distrugge tutto, riecheggiando la celebre espressione latina “tempus edax rerum”. Ciò viene poi ribaltato in Love, nel quale è il tempo stesso ad essere distrutto, grazie alla geniale integrazione di fotogrammi neri tra i vari stacchi di montaggio. Nel mezzo, Enter the Void, nel quale il tempo cominciava a vacillare, a perdere la propria forza distruttiva, facendo sì che passato e presente collidessero in un “presente esteso”.

In Climax tutto questo non c’è più. Il nichilismo qui non è nemmeno da intendersi più in senso nietzschiano ma assurge a nuova forma: non è più, cioè, la situazione dell’umanità post-morte di Dio ma è la pura forma dell’assenza di ogni cosa. Anche il tempo, in Climax, non esiste più. Nulla distrugge più nulla. La distruzione, ora, è nelle mani dell’individuo ed è una autodistruzione. Tutto ciò che si può fare l’un per l’altro è accelerare questo processo di autodistruzione (pensiamo, ad esempio, alla madre che chiude nello sgabuzzino il figlio) ma la nostra fine, ora, è solo ed esclusivamente nelle nostre mani, siamo diventati i distruttori di noi stessi.

Il tempo non esiste più, dicevamo. E ciò diviene chiaro nella prima parte del film, la quale si articola in tre sottoinsiemi (i due principali sono la presentazione dei personaggi e la festa vera e propria): i video delle interviste-provini ai personaggi; la prova collettiva di ballo; i dialoghi ad essa successivi. Cosa unisce queste tre sezioni? L’annullamento della narrazione. La prima sezione, infatti, è un’unica inquadratura fissa su un vecchio televisore (notare come sia circondato da videocassette di film, tra i quali possiamo scorgere opere come Possession di Andrzej Zulawski) sul cui schermo i vari protagonisti si raccontano. Per lunghissimi minuti, nulla accade e lo spettatore si spazientisce. La lama di Noè si appoggia sulla nostra pelle e inizia a punzecchiarci, è una sorta di sfida che il regista ci lancia: “Forza, manda avanti veloce. Puoi farlo, qui non succede nulla. Dai, fallo”. Ma resistiamo, non vogliamo farci sconfiggere già all’inizio. Il film prosegue, poi, con il ballo di gruppo e, anche qui, per lunghissimi minuti un unico piano-sequenza, realizzato presumibilmente con un dolly libero di muoversi nello spazio, eseguendo carrellate avanti e indietro, panoramiche e plongée (è, questa, una posizione della camera che Noé sembra amare paricolarmente). Ancora una volta, non c’è narrazione, il tempo, ovvero ciò che viene scandito dalla narrazione stessa in un film (e, in fondo, non è il tempo medesimo una forma di narrazione dell’esistenza?), rifugge il film. O, per meglio dire, il film evita il tempo.

Si giunge, così, alla terza sezione di questa prima parte di film. Dopo l’esibizione, il gruppo, all’apparenza coeso durante la prova, si frammenta in piccoli nuclei binari: la macchina da presa di Noè, con il suo fido grandangolo che è al tempo stesso comprensivo ed esclusivo (da un lato, infatti, include quanto più spazio possibile, dall’altro separa le coppie), osserva i personaggi che, a due a due, parlano male degli altri, parlano di droga, parlano di sesso. Quelli che sembravano ragazzi “normali” si rivelano viziosi e viziati, volgari e, a tratti, financo repellenti. E ancora, niente narrazione. Il tempo, se non fosse per quello che regola il nostro mondo e per il timer del riproduttore multimediale, non è pervenuto.

Dopo circa mezz’ora (forse qualcosina in più) di non-narrazione, ha inizio la festa. E, timidamente, comincia ad emergere una forma appena abbozzata di temporalità. Accadono cose, si susseguono azioni. Ma spesso esse sono tenute insieme solo dal piano-sequenza (artificiale, à la Birdman o Nodo alla gola) orchestrato alla perfezione da Noé. La situazione degenera e, con essa, impazzisce la macchina da presa, sempre più agitata e convulsa, fino a raggiungere l’apice nell’ultima parte, sottosopra.

Dicevamo, azioni sconnesse. Climax non è un seguitare di avvenimenti ma di prestesti. Strumenti di tortura nelle mani del regista, il cui unico scopo non è più, oramai, la riflessione intellettuale ma la sofferenza dello spettatore (sebbene Noé abbia affermato di non fare film per il pubblico ma esclusivamente per sé stesso). È in questo contesto che trova la propria spiegazione il titolo del presente articolo.

Nel primo numero della rivista del blog The art(s) of slow cinema, Sebastian Cordes scrive che la noia è ciò che si colloca nel punto di intersezione tra l’individuo ed il mondo e che essa stimola una riflessione, la cui forma più importante è quella che ci permette di capire che non siamo noi in controllo del tempo ma, al contrario, ad esso siamo sottomessi, controllati (seguendo il pensiero di Martin Heidegger). Se possiamo, dunque, considerare questa come noia positiva, ovvero in grado di metterci in relazione con il tempo e di farci comprendere il nostro rapporto con esso, Gaspar Noé ribalta la situazione. Non c’è più il tempo e, di conseguenza, non esiste più il nostro rapporto con esso. Escludendo ogni possibile significato spregiativo, è questa una noia negativa.

Assume così un proprio specifico motivo la locandina del film. Climax non è solo il lungometraggio che segue gli altri (nel poster vediamo i titoli della sua filmografia accompagnati da verbi di disprezzo, riferiti allo spettatore che, presumibilmente, dovrebbe odiare il regista) ma è quello, tra tutti, più radicale ed estremo, tanto nella messa in scena quanto nella propria filosofia.

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